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Ecco perché le zebre hanno le strisce

Ricercatori dell’Università della California hanno scoperto come mai le zebre hanno le caratteristiche strisce bianche e nere alternate. Il motivo sarebbe semplice, questo tipo di disposizione e colorazione alternata creerebbe un effetto “rinfrescante” per la pelle dell’animale, un modo naturale per proteggersi dal gran caldo africano. Ma come funziona? Le strisce di colore nero assorbono più calore delle strisce di colore bianco creando una sorta di corrente d’aria tra le due strisce in grado di regolare la temperatura corporea dell’animale. Tanto più è caldo il posto di provenienza delle zebre maggiore è la connotazione scura delle strisce. Per giungere a questa conclusione gli scienziati hanno analizzato le zebre provenienti da 16 siti diversi, prendendo in considerazione il clima, la vegetazione e la presenza di animali predatori o mosche succhi-sangue; questi ultimi due parametri sono stati presi in esame per rapportare lo studio ad altre ricerche aventi come oggetto lo stesso tema.

La ricerca sfata la credenza secondo la quale le strisce delle zebre avessero la funzione di creare una sorta di illusione ottica in grado di abbagliare i leoni; secondo gli scienziati dell’Università della California, se ciò fosse stato vero, la ricerca avrebbe dovuto appurare la presenza di più leoni nelle aree in cui le zebre manifestano sulle loro pelle poche strisce, ma così non è stato.

I ricercatori sono scettici anche su alcune recenti ricerche che suggeriscono che le strisce sono utilizzate dalla zebre per respingere le punture di mosche succhia-sangue (tafani e mosche tse-tse). In particolare, uno studio condotto da Tim Caro dell’Università della California (già ipotizzato dal prof. Jeff Waage nel 1981), aveva  preso in esame sette specie di zebre, relazionando la forma e disposizione delle strisce sul loro corpo rispetto anche alla presenza nella zona della mosca tse-tse e dei tafani.

Imparare una seconda lingua, anche in età avanzata, protegge il nostro cervello dall’invecchiamento

Alcuni ricercatori dell’Università del Kent (Inghilterra) hanno studiato le scansioni cerebrali di 20 persone – vissute in Gran Bretagna per almeno 13 mesi – tutte intorno ai 30 anni di età e che avevano iniziato l’apprendimento dell’inglese come seconda lingua intorno ai 10 anni. Le immagini sono state confrontate con quelle di 25 persone di età simile ma che parlavano solo inglese. Nelle persone bilingue lo studio ha rilevato miglioramenti nella struttura della materia bianca del cervello, con una spiccata presenza nelle aree preposte al linguaggio, apprendimento e semantica.

Insomma, imparare una secondo lingua è stato riconosciuto essere un ottimo metodo per aumentare le capacità mentali e lo studio suggerisce che gli effetti si estendono a coloro che iniziano l’apprendimento dall’età di 10 anni in poi e non sono nella primissima infanzia.

Christos Pliatsikas della scuola di Psicologia dell’Università del Kent, promotore dello studio ha spiegato: “L’utilizzo quotidiano di più di una lingua funziona come un’intensa stimolazione cognitiva che avvantaggia le strutture del cervello relative al linguaggio, preservandone l’integrità, e quindi proteggendo dal deterioramento in età più avanzata”

“Il nostro studio dimostra che il bilinguismo, anche quando viene acquisito in età adulta, possa preservare il cervello dall’invecchiamento” sostengono gli autori dello studio.

Avere freddo è contagioso, parola di scienziato

Uno studio rivela che osservare una persona in preda a brividi di freddo provoca un abbassamento della temperatura corporea dell’osservatore. Negli esperimenti, si è appurato che chi guardava un video con protagonista una persona che immergeva le mani in acqua gelata, incappava in un simultaneo abbassamento della propria temperatura, una sorta di empatia che si manifesta in modo più o meno accentuato da persona a persona. Neil Harrison, neuroscienziata dell’Università del Sussex (Inghilterra) spiega: “crediamo che questo mimetismo della risposta corporea si manifesti per cercare di ricreare all’interno di noi stesso uno stato fisiologico molto simile alla persona che osserviamo, così da meglio capire come ci sente in quella determinata condizione ed essere così più pronto e capace a offrire aiuto”. La dott.ssa Harrison sostiene che il fenomeno è da ricercarsi nei cosiddetti “neuroni specchio”, che si trovano in specifiche aree del cervello, cellule nervose motorie che riescono a far credere al nostro cervello che determinate azioni che osserviamo compiere da altre persone, siano realtà compiute da noi in prima persona.
Lo studio, pubblicato sul magazine Plos One, ha visto i ricercatori esaminare 36 partecipanti mentre guardavano otto video che mostravano attori con una delle loro mani immersa in acqua visibilmente calda o fredda.

Ogni video è iniziato con l’attore seduto di fronte a un contenitore trasparente parzialmente riempito d’acqua. Nei quattro video in cui si esamina una situazione di immersione in acqua calda, i primi 40 secondi mostrano l’attore aggiungere gradualmente acqua calda dal bollitore fumante nel contenitore, controllando la temperatura dell’acqua ogni pochi secondi. Successivamente l’attore è stato mostrato con la sua mano immersa nell’acqua per altri due minuti e 20 secondi. Lo stesso procedimento è stato fatto nel caso inverso, utilizzando acqua ghiacciata piuttosto che calda. Sono anche stati mostrati quattro video con attori che immergevano la loro mano in contenitori con acqua a temperatura ambiente.

I ricercatori hanno monitorato la temperatura della mano dei partecipanti allo studio mentre questi guardavano i video, riscontrando che alla vista degli attori che immergevano la mano nell’acqua ghiacciata la loro temperature corporea subiva un piccolo ma statisticamente significativo abbassamento, per la precisione di 0,2 gradi centigradi nella mano sinistra e 0,1 gradi centigradi nella mano destra. Nessun cambiamento invece nel video con acqua a temperatura ambiente e con acqua calda.

Secondo la dottoressa Harrison “il non avere osservato un significativo cambiamento nella temperatura quando i partecipanti hanno visto il video con acqua calda, pensiamo sia dovuto probabilmente al fatto che, mentre nel video con acqua fredda il ghiaccio era praticamente presente e visibile per tutto il video, nel caso dell’acqua calda, il calore era avvertibile solo all’inizio del video, in cui si vedeva un po’ di vapore e la mano dell’attore leggermente più colorita”.

Le formiche sono ‘mancine’? Preferiscono esplorare l’ambiente ruotando in una direzione specifica

Ogni essere umano in età infantile sceglie in modo naturale con quale mano scrivere o compiere determinate operazioni, preferendo spesso l’uso della mano destra (circa il dieci per cento delle persone sono mancine), un processo che gli esperti chiamano “lateralizzazione cerebrale”. Sembra essere una capacità tipicamente dell’uomo, in realtà si tratta di un fenomeno presente anche negli animali. Asimmetrie comportamentali sono state individuate in uccelli, bassi vertebrati, pesci e vertebrati e ora anche nelle formiche. Si è osservato che le formiche, poste in un labirinto, cercano una via d’uscita preferendo analizzare il percorso di sinistra, il perché rimane sconosciuto; la tendenza è molto più accentuata quando si trovano a dover esplorare nuovi nidi. L’esperimento è stato condotto osservando il comportamento delle formiche della specie Temnothorax albipennis (una specie di piccola formica nella sottofamiglia Myrmicinae) o formiche di roccia. Secondo il biologo Edmund Hunt, coinvolto nello studio dell’Università di Bristol, una possibile teoria del perché le formiche preferiscono orientarsi a sinistra è da ricercarsi sul fatto che “le formiche possono usare l’occhio sinistro per rilevare possibili predatori. Inoltre, è un dato di fatto che se si rimane bloccati in un labirinto, girando costantemente in una direzione rispetto a un’altra si è più sicuri di trovare una via d’uscita”. Gli studiosi sottolineano come indagare le basi biologiche della lateralizzazione cerebrale negli insetti potrebbe essere utile per comprendere meglio il comportamento di creature più complesse che presentano comportamenti simili, compreso gli esseri umani. La ricerca è stata pubblicata sul magazine Biology Letters.

(Foto Credit: Edmund Hunt, University of Bristol, UK)

Estinzione dei dinosauri avvenuta in concomitanza a forti eruzioni vulcaniche

Un nuovo studio dell’Università di Princeton dimostra che una serie di esplosioni vulcaniche avvenute 66 milioni di anni fa immesse nell’atmosfera terrestre enormi quantità di fumi e gas (anidride carbonica e anidride solforosa) in grado di alterare il clima del pianeta, un evento che si verificò in contemporanea con l’inizio dell’estinzione dei dinosauri. Le prime eruzioni si verificarono nell’India occidentale dando vita all’altopiano del Deccan (Trappi del Deccan – nella foto), un territorio igneo localizzato nella parte centro occidentale dell’India, e che rappresenta una delle più estese zone vulcaniche della Terra (512.000 chilometri cubi di lava). Secondo la ricerca, i Trappi del Deccan – che coprono un territorio vasto come la Francia – emersero 66,29 milioni di anni fa, circa 250mila anni prima che il meteorite di Chicxulub, si schiantò nella penisola dello Yucatan nel Messico orientale. Secondo gli studiosi di Princeton creò un ambiente tanto ostile da favorire l’estinzione Cretaceo-Paleocene, un’ipotesi a lunga messa in disparte a favore dell’impatto di un asteroide con suolo terrestre. Nei successivi 750mila anni, i vulcani terrestri avrebbero immesso sulla Terra più di 1,1 milioni chilometri cubici di lava. Il motivo della scomparsa dei dinosauri sarebbe quindi da ricercarsi non solo nell’impatto del meteorite Chicxulub ma anche e soprattuto nei fenomeni vulcanici dell’epoca. Fino ad oggi, nessuno avrebbe mai potuto legare strettamente l’attività vulcanica con il fenomeno dell’estinzione del Cretaceo, “I Trappi del Deccan non erano mai stati dati con tale precisione” ha dichiarato Paul Renne, direttore del centro di geocronologia dell’Università di Berkeley in California. Il gruppo di ricercatori di Princeton tornerà in India a gennaio per raccogliere ulteriori campioni di roccia che permetteranno al team di datare con maggiore precisione la loro formazione.

L'altopiano del Deccan  occupa la gran parte dell'India peninsulare. Ha un'altitudine tra i 305 e i 915 metri, con picchi di 1220 metri.
L’altopiano del Deccan occupa la gran parte dell’India peninsulare. Ha un’altitudine tra i 305 e i 915 metri, con picchi di 1220 metri.
Scienziati trovano modo per evitare troppa schiuma nella birra

Alcune bottiglie di birra quando le apri traboccano di schiuma, un fenomeno che sorge quando determinati funghi infettano i chicchi d’orzo del malto. I microrganismi attaccano l’orzo grazie al supporto di alcune proteine chiamate idrofobine. Durante il processo di fermentazione, le idrofobine possono attrarre molecole di anidride carbonica prodotte dall’orzo che fermenta, rendendo la birra troppo frizzante. I maestri birrai tentano di arginare questo fenomeno aggiungendo estratto di luppolo, un agente antischiuma che si lega alle proteine idrofobine inattivandole. Ora, alcuni scienziati del Belgio hanno trovato una soluzione tecnologica per ovviare al problema: i magneti. Infatti, applicando un campo magnetico all’infuso dell’estratto di luppolo, i magneti riescono a legare l’agente antischiuma in particelle molto più molto piccole e quindi più capillarmente efficaci, bloccando l’anidride carbonica e diminuendo l’effetto schiuma. Durante una prova sul campo, i magneti sono riusciti a ridurre la formazione di schiuma in eccesso così efficacemente che i birrai hanno dovuto aggiungere alla birra molto meno quantità di estratto di luppolo, con un netto risparmio sui costi di produzione. La nuova tecnica sarà ampiamente documentata in un articolo che sarò pubblicato il mese prossimo nel Journal of Food Engineering.

Missione Rosetta: le comete non hanno portato acqua sulla Terra

Forse gli scienziati saranno costretti a rivedere ampiamente le loro idee sulla formazione dell’acqua sulla Terra, questo è quanto si evince da alcune elaborazioni (pubblicate sulla rivista Science) effettuate grazie ai dati raccolti dalla missione Rosetta. La sonda Rosetta, atterrata lo scorso 12 novembre sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, ha messo in evidenza come l’acqua presente sulla cometa risulta diversa da quella che abbonda sul nostro pianeta, nella fattispecie, i due spettrometri di massa (Rosina) della sonda hanno analizzato il vapore acqueo proveniente dalla superficie della cometa, riscontrando che l’acqua della cometa ha le stesse proprietà fisiche dell’acqua terrestre ma, rispetto a quest’ultima, ha maggiore massa con atomi di idrogeno sostituiti con atomi di deuterio; il team ha addirittura scoperto che l’acqua pesante sulla cometa 67P è addirittura più di tre volte superiore alla medesima acqua presente su tutta la Terra. Il prof. Kathrin Altwegg, dall’Università di Berna, in Svizzera, impegnato anche lui sul progetto Rosetta, ha dichiarato: “questo rapporto tra acqua pesante e leggera è molto caratteristico e non facilmente mutabile nel tempo”. Tuttavia altri studi, che prendono in esame i dati del telescopio Herschel Space, hanno in precedenza rivelato che l’acqua presente sulla cometa Hartley 2 (103P/Hartley) – una piccola cometa della Fascia di Kuiper  in una regione del Sistema Solare che si estende dall’orbita di Nettuno (alla distanza di 30 UA) fino a 50 UA dal Sole) appartenente alla famiglia delle comete gioviane, scoperta nel 1986 da Malcolm Hartley – sembra essere più simile e compatibile con il rapporto tra deuterio e idrogeno presente nell’acqua terrestre. Il prof. Altwegg ritiene che “abbiamo molte diverse comete provenienti da diverse regioni del sistema solare, in alcune è presente acqua leggera, in altre acqua pesante, in ogni caso l’impatto di diverse tipologie di comete sulla Terre avrebbe comunque portato a una miscela in cui avrebbe sicuramente prevalso l’acqua più pesante, ciò lascia dedurre che molto probabilmente l’acqua presente sulla Terra non proviene dalla comete”. A questo punto la teoria più accreditata è che l’acqua terrestre provenga dagli asteroidi, l’acqua in essi rinvenuta è infatti molto più simile a quella terrestre. Tuttavia, gli stessi ricercatori affermano che è troppo presto per escludere la teoria secondo la quale l’acqua terrestre provenga dalle comete e che per appurarlo sono necessari ulteriori studi. Fonte

Uno spray che trasforma qualunque oggetto in un pannello solare

Ben presto sarà possibile ricaricare il proprio tablet avvolgendolo in una pellicola trasparente. Sembra fantascienza ma non lo è, infatti, alcuni ricercatori sono riusciti a produrre un particolare spray (chiamato sprayLD) in grado di “spruzzare” celle solari su superfici flessibili utilizzando minuscoli materiali sensibili alla luce, conosciuti come punti quantici colloidali (CQDs). Ciò significa che sarà possibile trasformare qualunque oggetto, anche flessibile, in una sorta di pannello solare. “Il mio sogno è che un giorno qualcuno si rechi a casa tua con uno zaino pieno di una particolare vernice da spruzzare sul tuo tetto per trasformarlo in un immenso pannello solare” ha dichiarato Illan Kramer, borsista post-dottorando de “The Edward S. Rogers Sr. Department of Electrical & Computer Engineering and IBM” presso l’Università di Toronto, nonché uno degli studiosi che ha messo a punto lo spray hi-tech. Il tettuccio di un’automobile, rivestito con la pellicola CQD produrrebbe abbastanza energia per alimentare tre lampadine da 100 Watt.

La retina artificiale creata grazie ai nanotubi di carbonio

Con il progredire degli anni il nostro corpo subisce un progressivo invecchiamento che riguarda tutti gli organi, uno dei quali è l’occhio che, in alcuni casi, subisce una forte degenerazione retinica con potenziale riduzione della vista. Tuttavia, forse, ben presto sarà possibile riparare la retina danneggiata con una sorta di protesi realizzata in laboratorio. Infatti, ricercatori della TAU (Tel Aviv University) hanno pubblicato i risultati di un interessante studio in cui dimostrano come combinando nanotubi di carbonio e nanorod è possibile creare un film flessibile, in grado di indurre l’attività neuronale in risposta alla luce e che potenzialmente potrebbe sostituire una retina danneggiata. La retina artificiale è stata sviluppata da un team internazionale guidato dalla Prof.ssa Yael Hanein della Tel Aviv University: “Rispetto alle tecnologie testate in passato, questo nuovo dispositivo è più efficiente, più flessibile e può stimolare i neuroni più efficacemente”, ha dichiarato Hanein, continuando: “La nuova protesi, rispetto ai modelli precedentemente sviluppati, è molto più compatta; inoltre, il nuovo materiale è in grado di fornire una risoluzione spaziale maggiore”.
“Siamo ancora lontani da effettivamente sostituendo la retina danneggiata”, ha dichiarato il dottor Bareket (uno dei componenti del team che ha sviluppato la retina artificiale), ma abbiamo dimostrato che questo nuovo materiale è in grado di stimolare i neuroni in modo efficiente solo impiegando la luce, senza nessuna fonte energetica esterna, una vera rivoluzione in questo ambito”.

Lo specchio hi-tech che allontana il calore dagli edifici

Un nuovo materiale multistrato e ultrasottile può raffreddare gli edifici senza l’impiego di aria condizionata, riflettendo fino al 97 per cento della luce solare direttamente nello Spazio. A realizzarlo sono stati alcuni ingegneri di Stanford guidati dal Professor Shanhui Fan. Il materiale riflette la luce solare che lo irradia e disperde il calore come radiazione infrarossa. Un’idea rivoluzionaria che permetterà di creare rivestimenti in grado di mantenere al fresco gli edifici anche nei giorni di gran caldo, abbassando la loro temperatura anche di 10-12 gradi centigradi. Sebbene si tratti di una tecnologia ancora da approfondire, presto potrebbe essere impiegata in molti edifici, si è infatti calcolato che, se impiegata su larga scala, per esempio negli Stati Uniti, favorirebbe un risparmio del 15 per cento sull’energia utilizzata per alimentare gli attuali sistemi di aria condizionata.

Men1309, la molecola che distrugge i tumori solidi

È frutto della sperimentazione italiana la molecola Men1309. Soprannominata “anticorpo armato” e presentata lo scorso 25 novembre a Firenze; si fa letteralmente fagocitare dall’antigene per poi rilasciare nel tessuto compromesso dal tumore una tossina che distrugge la componente maligna. Per iniziare i test sugli esseri umani bisognerà attendere il 2016 ma i ricercatori della casa farmaceutica Menarini, in collaborazione con quelli di Oxford BioTherapeutics, che hanno sperimentato la molecola, sono abbastanza fiduciosi: in laboratorio, infatti, Men1309 ha dimostrato di intervenire positivamente sia sui linfomi Non Hodgkin, sia tumori solidi, in modo più incisivo su un sottotipo specifico di tumore della mammella. Lo sviluppo della molecola è frutto di un accordo del gruppo Menarini con Oxford Biotherapeutics (Obt) che prevede la ricerca di altri 3 “anticorpi armati” per un impegno di spesa di oltre 800 milioni di euro.

Ricercatori sviluppano batteria che funziona con lo zucchero

Ricercatori della Virginia Tech hanno messo a punto una batteria ad alta densità energetica che tra il suo funzionamento dalla zucchero e che apre così la strada a nuovi dispositivi biodegradabili. Addio quindi alle batterie usa e getta che deturpano l’ambiente, le nuove batterie potranno essere gettate via senza il rischio di provocare inquinamento ambientale. Percival Zhang, professore che ha presto parte al progetto, spiega che “lo zucchero è un composto ideale per accumulare energia, e che questo prototipo di batterie non è il primo modello che sfrutta questo alimento”. Rispetto alle altre proposte però, la nuova batteria offre una densità di energia superiore, ovvero non necessita di essere caricata in brevi lassi di tempo e può essere ricaricata aggiungendo semplicemente dello zucchero. La batteria funziona per mezzo di un enzima sintetico che, in combinazione con un biocatalizzatore, riesce a creare una fonte di energia che evita l’impiego di metalli costosi come il platino. Il risultato è una batteria ricaricabile, non infiammabile e che non esplode.

Individuata la molecola che fa ritornare giovani

Ricercatori della Harvard Medical School sono riusciti a mettere a punto una particolare molecola che potrebbe farci ritornare giovani. I test sono stati sperimentati con successo sui topi, la sperimentazione sull’uomo avverrà non prima del 2015. La notizia è sensazionale se si pensa che fino ad oggi l’invecchiamento era considerato un processo inarrestabile e incontrovertibile. Si è riscontrato che questa particolare molecola, chiamata Nad, diminuisce proporzionalmente con l’avanzare dell’età; gli scienziati aumentando le quantità della molecola sono riusciti a ringiovanire le cavie di laboratorio. In una settimana di cura gli scienziati ai topi di 2 anni hanno “sottratto” un anno e mezzo di vita, prendendo in considerazione parametri come la funzionalità mitocondriale, l’insulino-resistenza, la perdita di massa muscolare, e l’infiammazione. Un primo passo verso l’eterna giovinezza?

Super soldati grazie a una tuta

Nome in codice Talos, è una sorta di esoscheletro dotato dei più avanzati sistemi tecnologici. Si tratta di un progetto dell’esercito americano che dovrebbe vedere la luce entro i prossimi tre anni; una rivoluzionaria armatura intelligente che potrebbe dare alle truppe dell’esercito una forza soprannaturale. Grazie a congegni idraulici, la tuta permette di aumentare considerevolmente la forza dei militari, consentendo loro di sollevare grossi carichi e muoversi agevolmente su terreni impervi. Sempre in campo militare vale la pena menzionare un ambiziosissimo progetto che una squadra di scienziati del MIT sta sviluppando: un componente in grado di plasmare una sorta di armatura liquida, con fluidi che si trasformano in solido quando viene applicato loro un campo magnetico o la corrente elettrica. Fantascienza? Sembra proprio di no…

Da Ardica la batteria per smartphone che dura 7 giorni

La durata delle batterie sugli smartphone, sempre più sofisticati e avari di energia, è un problema che affligge molti utenti, costretti a portarsi dietro caricatori di vario stampo per ovviare al problema di rimanere senza carica mentre si è fuori casa. Ma la soluzione potrebbe arrivare entro il 2015 quando la ARDICA, azienda che lavora in cambio militare, commercializzerà una nuova batteria, che promette una durata di ben 7 giorni. Potrà essere collegata a qualunque smartphone, iPhone compreso, e costerà appena 10 dollari; una vera manna dal cielo per tutti. La batteria dovrebbe fare uso di un mix di sostanze chimiche in  grado di garantire una così lunga durata.

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Samsung prova le prime connessioni 5G

La coreana Samsung ha dato il via a una serie di esperimenti per testare (si tratta di uno sviluppo considerato indicativo per le reti 5G) la connettività Internet mobile di quinta generazione, tecnologia che dovrebbe vedere la luce entro il 2020. La nuova banda, che lavorerà a una frequenza di 28 GHz, consentirà di raggiungere velocità di trasferimento di 1Gb al secondo. I test sono stati eseguiti su una distanza di 2 chilometri. La stessa Samsung aveva svolto in precedenza test similari, ma avevano lasciato i tecnici con qualche perplessità, soprattutto per quanto concerne la perdita di propagazione del segnale. Le nuove antenne impiegate, invece, dovrebbero aver risolto il problema.

Mantello dell’invisibilità. Novità dal Giappone

Dall’Indocina arriva un “mantello”  formato da sottilissimi pannelli di vetro capaci di deviare i raggi della luce e far risultare quello che copre praticamente invisibile. A metterlo a punto un team di scienziati della Nanyang Technological University di Singapore. In un video che hanno divulgato, gli esperti mostrano come sia possibile occultare un pesce rosso all’interno di un acquario e come far “scomparire” le zampe di un gatto quando questi si posiziona dietro il “mantello”.  A differenza delle invenzioni precedenti, il mantello invisibile è realizzato con normali pannelli di vetro e fa sparire gli oggetti alla luce visibile e non solo alle microonde. Al momento, sottolineano i ricercatori, è in grado di rendere gli oggetti ‘invisibili’ solo da alcune angolazioni ma si tratta comunque di un ottimo passo in avanti.

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Scienziati cinesi producono neuroni da urina

Un team di ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze, guidato dal prof. Duanqing Pei, ha trovato un modo per estrarre cellule dall’urina umana, quindi utilizzarle come neuroni in grado di aiutare lo studio e il trattamento di malattie neurodegenerative.
Gli scienziati cinesi sono riusciti a isolare le cellule da campioni di urina di tre diversi pazienti con età di 10, 25 e 37 anni. Queste cellule sono state così trasformate in progenitori neurali, ovvero in una forma ‘entry-level’ di cellule cerebrali. Da lì, le cellule sono state coltivate con particolari procedimenti fino a formare neuroni maturi di tipo astrociti e oligodendrociti. L’intero processo ha richiesto appena 12 giorni, la metà del tempo richiesto per produrre cellule staminali pluripotenti indotte (iPSCs) mediante un campione di sangue. Il nuovo metodo, ha anche il vantaggio di non richiedere l’impiego di virus per alterare geneticamente la cellula, operazione che può potenzialmente aumentare l’espressione di geni oncogeni. I neuroni così ottenuti sono stati collocati nel cervello di una cavia da laboratorio; dopo quattro settimane, si è appurato che le cellule impiantate si comportavano come neuroni funzionali senza l’insorgenza di tumori o mutazioni. Fonte e approfondimenti

Una super seta sintetica che potrebbe sostituire il kevlar

Alcuni ricercatori hanno sviluppato un metodo di lavorazione della seta di ragno sintetica sfruttamento i batteri. Il processo è stato perfezionato grazie a una lavorazione particolare chiamata “post-spin”, un passo fondamentale che, impiegando un attuatore meccanico, consente di aumentare la resistenza delle fibre molecolari della seta. Il risultato è una seta sintetica che è molto più vicina alla fibra naturale prodotta da un ragno femmina di tipo vedova nera. Le proprietà meccaniche della seta sintetica possono dare nuova linfa a numerose applicazioni industriali, pensando addirittura di sostituire il Kevlar, la fibra di carbonio e acciaio già impiegata in diversi oggetti. Il nuovo materiale potrebbe essere utilizzato in prodotti come giubbotti antiproiettile, cavi per sostenere ponti in acciaio, dispositivi medici, ecc.

Scienzati creano super adesivo basato sulle capacità ‘incollanti’ delle zampine dei geco

Le zampine dei geco hanno una forza adesiva impressionante, un geco è in grado di scalare superfici verticali e inclinate senza alcun problema. Alcuni ricercatori della University of Massachusetts Amherst, analizzando la struttura dei piccoli animaletti, sono riusciti a ricreare in laboratorio un collante simile denominato Geckskin. Irschick, uno dei ricercatori, ha dichiarato: “Sorprendentemente, le zampine di un geco possono appiccicarsi e liberarsi del collante con estrema semplicità, e senza lasciare sulle superfici interessate residui appiccicosi. Queste proprietà offrono uno spunto allettante per la messa a punto di materiali sintetici che possono facilmente incollarsi e scollarsi senza problemi; pensate alla possibilità di spostare agevolmente dalle pareti pesanti televisori”. Secondo i ricercatori, il collante Geckskin, su una superficie incollante di di circa 40cm quadrati, riesce a tenere ben fermo, su una superficie liscia come il vetro, un oggetto dal peso di 317Kg. Secondo il team che ha messo a punto il collante, lo Geckskin è in grado di tenere attaccato a una parete un televisore di 42″ a schermo piatto  permettendone lo spostamento su diverse pareti svariate volte.