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Nano-motori trasportano farmaci nelle pareti dello stomaco dei topi

Microscopiche macchine, lunghe appena 20 micrometri – tanto quanto la larghezza di un capello umano – viaggiano per la prima volta all’interno del corpo di un animale vivente, un giorno potrebbero essere utilizzate per veicolare farmaci in punti specifici dell’organismo. No, non è un post di fantascienza, ma è quello che sono riusciti a fare alcuni ricercatori dell’Università della California, a San Diego. I micro-dispositivi, testati su alcune cavie dal laboratorio, sono in realtà piccoli motori composti da nano-tubi di polimero rivestiti di zinco e iniettati nello stomaco delle cavie.

Quando i microscopici dispositivi sono entrati in contatto con l’acido dello stomaco, lo zinco ha prodotto bolle di idrogeno, che li ha spinti direttamente nel rivestimento dello stomaco, attaccandosi alle pareti dello stesso, sciogliendosi e rilasciando il farmaco in essi contenuti. Non è la prima volta che un micro-motore viene utilizzato per iniettare un farmaco, finora però i test erano stati fatti esclusivamente solo in campioni di cellule in laboratorio e non all’interno di una essere vivente.

A contatto con l’acido dello stomaco, lo zinco che riveste i nano-motori produce bolle di idrogeno che spinge gli stessi nelle pareti interne dello stomaco.

Liangfang Zhang e Joseph Wang che hanno condotto lo studio, pubblicato sulla rivista ACS Nano, hanno dichiarato: “il corpo dei motori si dissolve gradualmente a contatto con l’acido gastrico senza lasciare nell’organismo elementi tossici”. I ricercatori pensano che il nuovo metodo di rilascio del farmaco possa essere utilizzato in futuro anche negli esseri umani, ad esempio per trattare ulcere o per raggiungere parti del corpo umano inaccessibili senza la classica chirurgia. Questa particolare somministrazione dei farmaci secondo gli autori dello studio offre “una strategia di distribuzione dei farmaci notevolmente migliore rispetto alla comune diffusione passiva dei farmaci che vengono somministrati per via orale”.

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Il telescopio spaziale Kepler fotografa pianeta sul quale potrebbe esserci la vita

EPIC 201367065 è una stella rossa nana circa metà delle dimensioni del nostro Sole.  Ospita tre pianeti grandi come la Terra che si trovano a circa 150 anni luce di distanza dal nostro pianeta. Le orbite del pianeta più esterno fanno parte di un’area conosciuta come ”Goldilocks” (o zona abitabile) – una regione dove le temperature potrebbero essere abbastanza moderate per ospitare acqua e forse far esistere la vita.
La prossimità della stella fa si che la stessa risulti molto luminosa permettendo agli astronomi di studiare le atmosfere dei pianeti e determinare se sono simili a quella terrestre e quindi in grado di ospitare la vita. Il prossimo passo sarà quindi osservare i pianeti con altri telescopi, tra cui l’Hubble.

La scoperta assume ancora più valore se si pensa che è stata compiuta analizzando i dati ricevuti dal telescopio Kepler fortemente danneggiato. L’osservatorio orbitante della NASA lanciato in orbita il 7 marzo 2009 – cacciatore di esopianeti – già da tempo aveva manifestato problemi a due delle quattro ruote di reazione che ne mantenevano costante l’assetto; la prima ruota è andata fuori uso nel luglio 2012, la seconda poco più di un anno dopo (maggio 2013). Nonostante ciò riesce ancora a fornire importanti informazioni per gli astronomi.

I tre pianeti sono 2.1, 1.7 e 1.5 più grandi della dimensione della Terra. Il pianeta più esterno è il più piccolo dei tre e riceve tanta luce dalla sua stella quanta è quella che il nostro Sole invia al nostro pianeta; secondo Erik Petigura della Berkeley UC, che ha scoperto il 6 gennaio i pianeti mentre dirigeva un’analisi computerizzata dei dati di Kepler, i tre pianeti ricevono rispettivamente 10.5, 3.2 e 1,4 volte l’intensità della luce che arriva dal Sole sulla Terra. Petigura spiega: “C’è una possibilità molto reale che il pianeta più esterno sia roccioso come la Terra, il che significa che questo pianeta potrebbe avere la giusta temperatura per ospitare oceani di acqua allo stato liquido”.

Dopo la scoperta di Petigura il team che si sta occupando dello studio dei pianeti ha impiegato telescopi in Cile, Hawaii e California per cercare di ottenere maggiori informazioni sugli stessi: massa della stella, raggio, temperatura ed età. Due dei telescopi coinvolti, sono stati l’Automated Planet Finder sul Monte Hamilton, vicino a San Jose (California) e il telescopio “Keck” a Mauna Kea (Hawaii).

“Questa scoperta dimostra che K2 – così è stato ribattezzato il telescopio Kepler -, nonostante sia un po’ compromesso, possa ancora trovare pianeti scientificamente convincenti ed emozionanti” ha detto Petigura, che continia: “Questo nuovo uso ingegnoso di Keplero è una testimonianza dell’ingegnosità degli scienziati e ingegneri della NASA. Questa scoperta dimostra che Kepler può ancora dare tanto alla Scienza”.

Imparare una seconda lingua, anche in età avanzata, protegge il nostro cervello dall’invecchiamento

Alcuni ricercatori dell’Università del Kent (Inghilterra) hanno studiato le scansioni cerebrali di 20 persone – vissute in Gran Bretagna per almeno 13 mesi – tutte intorno ai 30 anni di età e che avevano iniziato l’apprendimento dell’inglese come seconda lingua intorno ai 10 anni. Le immagini sono state confrontate con quelle di 25 persone di età simile ma che parlavano solo inglese. Nelle persone bilingue lo studio ha rilevato miglioramenti nella struttura della materia bianca del cervello, con una spiccata presenza nelle aree preposte al linguaggio, apprendimento e semantica.

Insomma, imparare una secondo lingua è stato riconosciuto essere un ottimo metodo per aumentare le capacità mentali e lo studio suggerisce che gli effetti si estendono a coloro che iniziano l’apprendimento dall’età di 10 anni in poi e non sono nella primissima infanzia.

Christos Pliatsikas della scuola di Psicologia dell’Università del Kent, promotore dello studio ha spiegato: “L’utilizzo quotidiano di più di una lingua funziona come un’intensa stimolazione cognitiva che avvantaggia le strutture del cervello relative al linguaggio, preservandone l’integrità, e quindi proteggendo dal deterioramento in età più avanzata”

“Il nostro studio dimostra che il bilinguismo, anche quando viene acquisito in età adulta, possa preservare il cervello dall’invecchiamento” sostengono gli autori dello studio.

Avere freddo è contagioso, parola di scienziato

Uno studio rivela che osservare una persona in preda a brividi di freddo provoca un abbassamento della temperatura corporea dell’osservatore. Negli esperimenti, si è appurato che chi guardava un video con protagonista una persona che immergeva le mani in acqua gelata, incappava in un simultaneo abbassamento della propria temperatura, una sorta di empatia che si manifesta in modo più o meno accentuato da persona a persona. Neil Harrison, neuroscienziata dell’Università del Sussex (Inghilterra) spiega: “crediamo che questo mimetismo della risposta corporea si manifesti per cercare di ricreare all’interno di noi stesso uno stato fisiologico molto simile alla persona che osserviamo, così da meglio capire come ci sente in quella determinata condizione ed essere così più pronto e capace a offrire aiuto”. La dott.ssa Harrison sostiene che il fenomeno è da ricercarsi nei cosiddetti “neuroni specchio”, che si trovano in specifiche aree del cervello, cellule nervose motorie che riescono a far credere al nostro cervello che determinate azioni che osserviamo compiere da altre persone, siano realtà compiute da noi in prima persona.
Lo studio, pubblicato sul magazine Plos One, ha visto i ricercatori esaminare 36 partecipanti mentre guardavano otto video che mostravano attori con una delle loro mani immersa in acqua visibilmente calda o fredda.

Ogni video è iniziato con l’attore seduto di fronte a un contenitore trasparente parzialmente riempito d’acqua. Nei quattro video in cui si esamina una situazione di immersione in acqua calda, i primi 40 secondi mostrano l’attore aggiungere gradualmente acqua calda dal bollitore fumante nel contenitore, controllando la temperatura dell’acqua ogni pochi secondi. Successivamente l’attore è stato mostrato con la sua mano immersa nell’acqua per altri due minuti e 20 secondi. Lo stesso procedimento è stato fatto nel caso inverso, utilizzando acqua ghiacciata piuttosto che calda. Sono anche stati mostrati quattro video con attori che immergevano la loro mano in contenitori con acqua a temperatura ambiente.

I ricercatori hanno monitorato la temperatura della mano dei partecipanti allo studio mentre questi guardavano i video, riscontrando che alla vista degli attori che immergevano la mano nell’acqua ghiacciata la loro temperature corporea subiva un piccolo ma statisticamente significativo abbassamento, per la precisione di 0,2 gradi centigradi nella mano sinistra e 0,1 gradi centigradi nella mano destra. Nessun cambiamento invece nel video con acqua a temperatura ambiente e con acqua calda.

Secondo la dottoressa Harrison “il non avere osservato un significativo cambiamento nella temperatura quando i partecipanti hanno visto il video con acqua calda, pensiamo sia dovuto probabilmente al fatto che, mentre nel video con acqua fredda il ghiaccio era praticamente presente e visibile per tutto il video, nel caso dell’acqua calda, il calore era avvertibile solo all’inizio del video, in cui si vedeva un po’ di vapore e la mano dell’attore leggermente più colorita”.

Il freddo aiuta a bruciare i grassi ma può creare tanti altri problemi di salute

Oggigiorno fare i conti con il freddo non è un problema, indumenti dai tessuti caldissimi, nuove fonti energetiche, case super isolate, stufe di ogni tipo, contribuiscono a tener caldo il nostro corpo anche nelle giornate più rigide. Ma non è sempre stato così, il cambiamento è recente, fino a un centinaio di anni fa l’uomo ha patito il freddo. Insomma, nel tempo il nostro metabolismo ha subito un netto cambiamento, dovendosi abituare a gestire temperature sempre più miti rispetto al passato. E c’è chi studia se questo cambiamento incida in qualche modo anche sul nostro stato di salute. Ad esempio, Wayne B. Hayes, professore associato presso l’Università della California, sta sperimentando una sorta di giubbotto imbottito di ghiaccio che sfrutta i principi termodinamici per far perdere peso a chi lo indossa. L’idea nasce dal fatto che il corpo utilizza l’energia per mantenere una temperatura corporea normale, l’esposizione al freddo fa si che il nostro corpo spenda più calorie per mantenersi alla giusta temperatura. Hayes sostiene che chi indossa il giubbetto refrigerato per un’ora può arrivare a bruciare approssimativamente fino a 250 calorie. Il gilet di ghiaccio di Hayes è stato ispirato dalle ricerche di Ray Cronise, ex scienziato della NASA che ora si dedica alla ricerca dei benefici dell’esposizione del corpo al freddo. Cronise è convinto che l’obesità è solo in piccola parte causata della mancanza di esercizio, la causa primaria sarebbe da ricercarsi in una combinazione di ipernutrizione cronica ed eccessivo calore al quale è esposto il corpo: “la nostra temperatura corporea rimane costante e ci vuole un sacco di energia per mantenerla tale, un po’ come avviene per il riscaldamento di casa” spiega lo scienziato.
Cronise iniziò un regime di docce fredde e passeggiate a torso nudo durante l’inverno, perdendo 26,7 chili in sei settimane, verificando che il suo corpo bruciava un’enorme quantità di energia per cercare di mantenere una giusta temperatura corporea. Alcuni esperti hanno tuttavia sollevato preoccupazioni circa la regolare esposizione della pelle al freddo, tra l’altro si tratta di preoccupazioni condivise dallo stesso Cronise. Secondo il dottor Rod Röhrich esporsi al freddo non è una buona pratica, almeno per determinati soggetti con un sistema immunitario non ottimale o affetti da altri gravi problemi di salute. Per esempio, abbassare la temperatura del corpo utilizzando il giubbino ghiacciato di Hayes potrebbe mettere il corpo di chi lo indossa a rischio batteri o virus; anche chi soffre di pressione sanguigna alta dovrebbe fare molta attenzione, il freddo, infatti, funge da vasocostrittore, facendo ulteriormente aumentare la pressione. Insomma, i rischi sono tanti. In ogni caso, ad avvalorare la tesi di Cronise anche un recente studio, che ha appurato che, a parità di dieta e stile di vita, alcune persone che vivono in zone più calde della Spagna hanno maggiori probabilità di essere obese rispetto alle persone che vivono nelle parti più fredde. Studi su come il freddo possa influenzare il metabolismo di una persona risalgono a ricerche condotte nel tardo XVIII secolo dal chimico francese Antoine Lavoisier.

Ritrovato in Turchia il più antico arnese in pietra

È stato rinvenuto in Turchia il più antico utensile in pietra mai scoperto prima, rivelando così che gli esseri umani si sono spostati dall’Asia all’Europa molto prima di quanto si pensasse, circa 1,2 milioni di anni fa. Il ritrovamento è un pezzo di quarzite lavorato dall’uomo ed è stato scoperto in antichi depositi del fiume Gediz, nella Turchia occidentale. La scoperta è stata fatta da ricercatori della Royal Holloway e dell’Università di Londra, insieme a un team internazionale dal Regno Unito, Turchia e Paesi Bassi. Il prof. Danielle Schreve, dal dipartimento di geografia presso il Royal Holloway, spiega: “questa scoperta è fondamentale per stabilire la tempistica e la rotta percorsa dalla specie umana per insediarsi in Europa. La nostra ricerca suggerisce che il reperto è il più antico manufatto mai registrato fino ad oggi”. Per datare l’oggetto i ricercatori hanno fatto uso di strumenti ad alta precisione impiegando metodi radioisotopici e principi paleomagnetici, appurando che i primi esseri umani erano presenti nella zona tra circa 1,24 e 1,17 milioni di anni fa. In precedenza, i più antichi fossili di ominidi in Turchia occidentale erano stati recuperati nel 2007 a Koçabas, ma la datazione di questi e altri reperti di pietra erano incerte. Fonte

Zero-G Espresso, le particolari tazzine che permettono di bere il caffè nello Spazio

Come bere una bella tazza di caffè nello Spazio? Per effetto della gravità è impossibile farlo così come sulla Terra, i liquidi diventano gocce che galleggiano a mezz’aria e l’unico modo è adoperare apposite cannucce. Ora però una nuova tipologia di tazzine, messa a punto dal prof. Mark Weislogel, della Portland State University, potrebbero dare modo agli astronauti di assaporare un buon caffè anche in assenza di gravità.
Il segreto sta nella forma della tazzina, con un contorno calcolato al millesimo, i ricercatori sono riusciti a imporre al liquido un percorso forzato che permette agli astronauti di sorseggiare i liquidi senza che questi formino bolle, il tutto funziona allo stesso modo di come viene preparato il caffè espresso, non a caso il nome della tazzina riprende nel nome proprio il termine “espresso”. Già nel 2008 una tazzina simile a questa venne progettata dall’ex astronauta statunitense Don Pettit. La NASA sembra essere estremamente interessata al progetto che potrebbe avere risvolti anche in altri ambiti, come quello della gestione dei combustibili in assenza di gravità. Sei tazzine “Zero-g Espresso”, in una missione di rifornimento prevista per il prossimo febbraio 2015, partiranno alla volta della Stazione Spaziale Internazionale a bordo del razzo SpaceX Dragon. Saranno utilizzate dagli astronauti per sperimentare, oltre al caffè, anche l’utilizzo di altri liquidi come succhi di frutta, frullati e cacao.

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Estinzione dei dinosauri avvenuta in concomitanza a forti eruzioni vulcaniche

Un nuovo studio dell’Università di Princeton dimostra che una serie di esplosioni vulcaniche avvenute 66 milioni di anni fa immesse nell’atmosfera terrestre enormi quantità di fumi e gas (anidride carbonica e anidride solforosa) in grado di alterare il clima del pianeta, un evento che si verificò in contemporanea con l’inizio dell’estinzione dei dinosauri. Le prime eruzioni si verificarono nell’India occidentale dando vita all’altopiano del Deccan (Trappi del Deccan – nella foto), un territorio igneo localizzato nella parte centro occidentale dell’India, e che rappresenta una delle più estese zone vulcaniche della Terra (512.000 chilometri cubi di lava). Secondo la ricerca, i Trappi del Deccan – che coprono un territorio vasto come la Francia – emersero 66,29 milioni di anni fa, circa 250mila anni prima che il meteorite di Chicxulub, si schiantò nella penisola dello Yucatan nel Messico orientale. Secondo gli studiosi di Princeton creò un ambiente tanto ostile da favorire l’estinzione Cretaceo-Paleocene, un’ipotesi a lunga messa in disparte a favore dell’impatto di un asteroide con suolo terrestre. Nei successivi 750mila anni, i vulcani terrestri avrebbero immesso sulla Terra più di 1,1 milioni chilometri cubici di lava. Il motivo della scomparsa dei dinosauri sarebbe quindi da ricercarsi non solo nell’impatto del meteorite Chicxulub ma anche e soprattuto nei fenomeni vulcanici dell’epoca. Fino ad oggi, nessuno avrebbe mai potuto legare strettamente l’attività vulcanica con il fenomeno dell’estinzione del Cretaceo, “I Trappi del Deccan non erano mai stati dati con tale precisione” ha dichiarato Paul Renne, direttore del centro di geocronologia dell’Università di Berkeley in California. Il gruppo di ricercatori di Princeton tornerà in India a gennaio per raccogliere ulteriori campioni di roccia che permetteranno al team di datare con maggiore precisione la loro formazione.

L'altopiano del Deccan  occupa la gran parte dell'India peninsulare. Ha un'altitudine tra i 305 e i 915 metri, con picchi di 1220 metri.
L’altopiano del Deccan occupa la gran parte dell’India peninsulare. Ha un’altitudine tra i 305 e i 915 metri, con picchi di 1220 metri.
Scienziati trovano modo per evitare troppa schiuma nella birra

Alcune bottiglie di birra quando le apri traboccano di schiuma, un fenomeno che sorge quando determinati funghi infettano i chicchi d’orzo del malto. I microrganismi attaccano l’orzo grazie al supporto di alcune proteine chiamate idrofobine. Durante il processo di fermentazione, le idrofobine possono attrarre molecole di anidride carbonica prodotte dall’orzo che fermenta, rendendo la birra troppo frizzante. I maestri birrai tentano di arginare questo fenomeno aggiungendo estratto di luppolo, un agente antischiuma che si lega alle proteine idrofobine inattivandole. Ora, alcuni scienziati del Belgio hanno trovato una soluzione tecnologica per ovviare al problema: i magneti. Infatti, applicando un campo magnetico all’infuso dell’estratto di luppolo, i magneti riescono a legare l’agente antischiuma in particelle molto più molto piccole e quindi più capillarmente efficaci, bloccando l’anidride carbonica e diminuendo l’effetto schiuma. Durante una prova sul campo, i magneti sono riusciti a ridurre la formazione di schiuma in eccesso così efficacemente che i birrai hanno dovuto aggiungere alla birra molto meno quantità di estratto di luppolo, con un netto risparmio sui costi di produzione. La nuova tecnica sarà ampiamente documentata in un articolo che sarò pubblicato il mese prossimo nel Journal of Food Engineering.

Stampano in 3D due vertebre al titanio e le sostituiscono con quelle danneggiate di un paziente

Lo scorso 3 dicembre, chirurghi della Zhejiang University School of Medicine a Hangzhou, in Cina, hanno effettuato un intervento chirurgico – il primo di questo tipo – per rimuovere due vertebre danneggiate da un paziente di 21 anni, Wang Lin. Al loro posto è stato inserito un impianto al titanio stampato in 3D e modellato con l’esatta dimensione necessaria per il corpo del paziente. Per l’occasione è stato realizzate un modello 3D virtuale della colonna vertebrale di Lin sul quale sono state poi prese le misure per la stampa tridimensionale delle vertebre. Questo tipo di intervento, rispetto a un’operazione di chirurgia convenzionale, oltre a favore il lavoro dei chirurghi, garantisce anche meno rischi per il paziente. Il ragazzo da molto tempo soffriva di dolori lancinanti al petto e, in seguito una visita ospedaliera, si è appurato che era affetto da Fibroma Ossificante, lesioni benigne dell’osso che si stavano formando nella zona spinale, un  tumore estremamente raro, soprattutto attorno alle vertebre. L’intervento è stato un completo successo e Lin dovrebbe avere un pieno recupero delle sue funzionalità. Una piccola nota sul materiale impiegato: la stampa 3D del titanio sta riscuotendo un enorme successo in campo medico, il titanio, infatti, sempre esser il metallo giusto per realizzare impianti nel corpo umano, uno dei pochi che il sistema immunitario non rigetta.

Missione Rosetta: le comete non hanno portato acqua sulla Terra

Forse gli scienziati saranno costretti a rivedere ampiamente le loro idee sulla formazione dell’acqua sulla Terra, questo è quanto si evince da alcune elaborazioni (pubblicate sulla rivista Science) effettuate grazie ai dati raccolti dalla missione Rosetta. La sonda Rosetta, atterrata lo scorso 12 novembre sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko, ha messo in evidenza come l’acqua presente sulla cometa risulta diversa da quella che abbonda sul nostro pianeta, nella fattispecie, i due spettrometri di massa (Rosina) della sonda hanno analizzato il vapore acqueo proveniente dalla superficie della cometa, riscontrando che l’acqua della cometa ha le stesse proprietà fisiche dell’acqua terrestre ma, rispetto a quest’ultima, ha maggiore massa con atomi di idrogeno sostituiti con atomi di deuterio; il team ha addirittura scoperto che l’acqua pesante sulla cometa 67P è addirittura più di tre volte superiore alla medesima acqua presente su tutta la Terra. Il prof. Kathrin Altwegg, dall’Università di Berna, in Svizzera, impegnato anche lui sul progetto Rosetta, ha dichiarato: “questo rapporto tra acqua pesante e leggera è molto caratteristico e non facilmente mutabile nel tempo”. Tuttavia altri studi, che prendono in esame i dati del telescopio Herschel Space, hanno in precedenza rivelato che l’acqua presente sulla cometa Hartley 2 (103P/Hartley) – una piccola cometa della Fascia di Kuiper  in una regione del Sistema Solare che si estende dall’orbita di Nettuno (alla distanza di 30 UA) fino a 50 UA dal Sole) appartenente alla famiglia delle comete gioviane, scoperta nel 1986 da Malcolm Hartley – sembra essere più simile e compatibile con il rapporto tra deuterio e idrogeno presente nell’acqua terrestre. Il prof. Altwegg ritiene che “abbiamo molte diverse comete provenienti da diverse regioni del sistema solare, in alcune è presente acqua leggera, in altre acqua pesante, in ogni caso l’impatto di diverse tipologie di comete sulla Terre avrebbe comunque portato a una miscela in cui avrebbe sicuramente prevalso l’acqua più pesante, ciò lascia dedurre che molto probabilmente l’acqua presente sulla Terra non proviene dalla comete”. A questo punto la teoria più accreditata è che l’acqua terrestre provenga dagli asteroidi, l’acqua in essi rinvenuta è infatti molto più simile a quella terrestre. Tuttavia, gli stessi ricercatori affermano che è troppo presto per escludere la teoria secondo la quale l’acqua terrestre provenga dalle comete e che per appurarlo sono necessari ulteriori studi. Fonte

Scienziati scoprono composti per creare la pillola per l’obesità

Alcuni ricercatori dell’Harvard Stem Cell Institute (HSCI) hanno pubblicato uno studio che loro stessi descrivono come “il primo passo verso una pillola che può sostituire il tapis roulant (anche se, naturalmente, non fornirebbe tutti i benefici offerti dall’esercizio fisico)”. La ricerca sul controllo dell’obesità prende in esame le sempre più utilizzate cellule staminali umane, per trasformare le cellule di grasso bianche o “cattive” in cellule di grasso bruno; quest’ultimo è in grado di bruciare il grasso bianco trasformandolo in calore. Ciò non significa che è già disponibile un farmaco da utilizzare  per un trattamento clinico, ma apre la strada perché questo possa diventare realtà da qui a breve, magari dopo che i medesimi risultati saranno replicati con successo da altri team di ricerca. Le cellule di grasso bianche immagazzinano energia sotto forma di lipidi e svolgono un ruolo primario nello sviluppo dell’obesità, del diabete di tipo 2 ma anche di malattie cardiache, mentre il grasso bruno ha dimostrato nei topi che è in grado di abbassare i livelli di trigliceridi, ridurre l’insulino-resistenza associata a diabete di tipo 2 e bruciare il grasso bianco. Il prof. Cowan, associato nel dipartimento di cellule staminali e biologia rigenerativa di Harvard, ha così commentato la ricerca: “Siamo rimasti davvero colpiti dal fatto che ci sono alcuni composti che riescono a riprodurre lo stesso effetto di bruciare il grasso in eccesso quando vengono somministrati agli animali, ma quando questi composti non vengono più somministrati, l’effetto svanisce. In questo studio, invece, si è appurato che con la somministrazione dei nuovi composti l’effetto persiste e la conversione di grasso bianco in grasso bruno è stabile nel tempo”. Primi esperimenti in Germania hanno visto impiegare i nuovi composti sui topi: “Ci aspettiamo di avere i risultati abbastanza presto” Cowan ha dichiarato, aggiungendo che, “i composti sembrano funzionare sui topi allo stesso modo di come appurato in laboratorio, ma non sappiamo ancora quali sono gli effetti a lungo termine sul sistema metabolico e immunitario”. Cowan è attualmente impegnato nel parlare con diverse aziende farmaceutiche per collaborare sul progredire dello studio. Fonte

Polvere di cometa recuperata tra ghiacciai e neve dell’Antartide

Alcuni ricercatori hanno individuato polvere di cometa conservata nel ghiaccio e nella neve dell’Antartide, si tratta della prima volta che tali particelle vengono trovate sulla superficie della Terra. La scoperta può offrire importanti indizi su come si sia formato il nostro sistema solare. “La scoperta è molto eccitante per noi che studiamo questi tipi di materiali extraterrestri, abbiamo individuato una nuova fonte per qualcosa che è molto raro e interessante da studiare” ha dichiarato Larry Nittler, scienziato della Carnegie Institution for Science a Washington e direttamente coinvolto nella ricerca.
Per recuperare la polvere di cometa, i ricercatori, a partire dal 2000, hanno raccolto neve e ghiaccio da due diversi siti in Antartide; hanno quindi sciolto e filtrato l’acqua individuando 3000 micrometeoriti, minuscole particelle dal diametro di 10 micron o poco più grandi. Analizzando le micrometeoriti con uno stereomicroscopio sono così riusciti a recuperare più di 40 particelle aventi le caratteristiche della polvere di cometa. Fino ad oggi, l’unico modo per ottenere questo materiale era andare nello spazio oppure pianificare voli nella stratosfera, un lavoro certosino che richiedeva diverse ore di volo per recuperare singole particelle di polvere; per recuperare la polvere di cometa generalmente si usavano piastre rivestite di olio siliconico, attaccante alle ali dei velivoli, un sistema in gradi di intrappolare le particelle di polvere allo stesso modo di come avviene con le mosche e la carta moschicida. Questo metodo, purtroppo, contamina inevitabilmente la polvere che si impregna di olio e che rende molto difficile per gli scienziati la “pulitura” per ottenere materiale organico utile allo studio. Le polveri raccolte in Antartide, invece, sono eccezionalmente pure, non contaminate da nessun agente esterno. Confrontandole con quelle raccolte nella stratosfera potranno dare agli scienziati importanti indizi su quali componenti della polvere fanno parte della loro composizione chimica naturale e quali invece risultano contaminate.

La retina artificiale creata grazie ai nanotubi di carbonio

Con il progredire degli anni il nostro corpo subisce un progressivo invecchiamento che riguarda tutti gli organi, uno dei quali è l’occhio che, in alcuni casi, subisce una forte degenerazione retinica con potenziale riduzione della vista. Tuttavia, forse, ben presto sarà possibile riparare la retina danneggiata con una sorta di protesi realizzata in laboratorio. Infatti, ricercatori della TAU (Tel Aviv University) hanno pubblicato i risultati di un interessante studio in cui dimostrano come combinando nanotubi di carbonio e nanorod è possibile creare un film flessibile, in grado di indurre l’attività neuronale in risposta alla luce e che potenzialmente potrebbe sostituire una retina danneggiata. La retina artificiale è stata sviluppata da un team internazionale guidato dalla Prof.ssa Yael Hanein della Tel Aviv University: “Rispetto alle tecnologie testate in passato, questo nuovo dispositivo è più efficiente, più flessibile e può stimolare i neuroni più efficacemente”, ha dichiarato Hanein, continuando: “La nuova protesi, rispetto ai modelli precedentemente sviluppati, è molto più compatta; inoltre, il nuovo materiale è in grado di fornire una risoluzione spaziale maggiore”.
“Siamo ancora lontani da effettivamente sostituendo la retina danneggiata”, ha dichiarato il dottor Bareket (uno dei componenti del team che ha sviluppato la retina artificiale), ma abbiamo dimostrato che questo nuovo materiale è in grado di stimolare i neuroni in modo efficiente solo impiegando la luce, senza nessuna fonte energetica esterna, una vera rivoluzione in questo ambito”.

Approvata la costruzione del telescopio più grande del mondo

L’ESO (European Southern Observatory) ha reso noto che il telescopio più grande del mondo potrà finalmente essere realizzato. Il telescopio E-ELT (European Extremely Large Telescope), sarà costruito in Cile e sarà accessibile a partire dall’anno 2024. Il telescopio sorgerà sulla cima di una montagna chiamata Cerro Armazones (a 3mila metri di quota), nel deserto di Atacama. Il progetto è stato inizialmente approvato nel giugno del 2012, ma l’inizio della costruzione era vincolato al ricevimento di almeno il 90 per cento del finanziamento totale; l’ESO ha comunque autorizzato i lavori con un impegno di spesa di questa prima fase pari a 1.012,5 milioni di euro. “Si tratta del più potente e grande telescopio mai realizzato” ha dichiarato Tim De Zeeuw, il Direttore Generale dell’ESO. Largo ben 39 metri (e composto da un migliaio di specchi), permetterà agli scienziati di tutto il mondo di osservare i pianeti extrasolari di massa pari alla Terra, nonché studiare a fondo stelle e galassie vicine alla ricerca di nuove forme di vita.

Il DNA “sopravvive” a un volo nello Spazio con rientro in atmosfera terrestre

Un team di scienziati dell’Università di Zurigo è giunta a questa sorprendente conclusione durante un esperimento inerente la missione TEXUS-49: un razzo lanciato nel marzo del 2011 dal centro Esrange dell’Agenzia spaziale europea a Kiruna, in Svezia. I ricercatori hanno applicato sulla scocca del razzo dei campioni di DNA, una volta rientrato dalla missione il razzo ha conservato il campione di materiale genetico, ma non solo, il DNA recuperato (almeno il 35 per cento) era addirittura ancora in grado di trasferire informazioni genetiche. “Questo studio fornisce prove sperimentali che le informazioni genetiche del DNA sono essenzialmente in grado di sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio e al rientro in atmosfera densa come quella della Terra” ha dichiarato il professor Oliver Ullrich dell’Università di Zurigo. L’esperimento era stato inizialmente concepito come pre-test per verificare la stabilità di biomarcatori durante il volo spaziale e rientro in atmosfera. Nessuno dei ricercatori si aspettava i risultati prodotti. L’esperimento spiana così la strada sulla ricerca di forme di vita extraterrestre.

Il suono dell’atterraggio della sonda Philae sulla cometa 67P

Ricercatori del German Aerospace Centre hanno pubblicato un breve audio della sonda Philae che riproduce il suono dell’atterraggio (12 novembre 2014) della sonda sulla cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. La registrazione, frutto del Cometary Acoustic Surface Sounding Experiment (CASSE), dalla durata di appena 2 secondi, seppur breve consente di recuperare diverse importanti informazioni scientifiche; ad esempio, proprio grazie alla stessa, si è venuti a conoscenza del fatto che la superficie della cometa ha un morbido strato di diversi centimetri che poggia su un livello molto più consisteste e ghiacciato, un dato già rilevato da altri strumenti di bordo della sonda, nella fattispecie da quello che è stato denominato MUPUS, lo strumento che purtroppo si è danneggiato mentre cercava di trivellare il suolo della cometa. Questo il link per ascoltare il suono dell’atterraggio.

L’antimateria prodotta in laboratorio

Questa volta al Cern si prova a scrivere un altro passo della storia della scienza. Dopo essere riusciti a individuare sperimentalmente l’agognato bosone di Higgs, gli scienziati che operano nel laboratorio più importante del mondo, hanno catturato una sequenza di 80 atomi anti-idrogeno; il progetto, denominato Asacusa, ha visto anche la partecipazione di fisici italiani dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Secondo Luca Venturelli dell’INFN di Brescia, e coordinatore del gruppo di ricercatori italiani, l’esperimento portato a termine potrebbe finalmente spiegare come mai nell’universo visibile esiste una prevalenza di materia rispetto all’antimateria nell’universo visibile. Dopo il Bing Bang si è sprigionata la medesima quantità di materia e antimateria, ma poco istanti dopo l’antimateria è misteriosamente sparita. Tale differenza, che i fisici chiamano asimmetria, è un rebus che, forse, da oggi ha qualche speranza in più di essere risolto.

Ricercatori sviluppano batteria che funziona con lo zucchero

Ricercatori della Virginia Tech hanno messo a punto una batteria ad alta densità energetica che tra il suo funzionamento dalla zucchero e che apre così la strada a nuovi dispositivi biodegradabili. Addio quindi alle batterie usa e getta che deturpano l’ambiente, le nuove batterie potranno essere gettate via senza il rischio di provocare inquinamento ambientale. Percival Zhang, professore che ha presto parte al progetto, spiega che “lo zucchero è un composto ideale per accumulare energia, e che questo prototipo di batterie non è il primo modello che sfrutta questo alimento”. Rispetto alle altre proposte però, la nuova batteria offre una densità di energia superiore, ovvero non necessita di essere caricata in brevi lassi di tempo e può essere ricaricata aggiungendo semplicemente dello zucchero. La batteria funziona per mezzo di un enzima sintetico che, in combinazione con un biocatalizzatore, riesce a creare una fonte di energia che evita l’impiego di metalli costosi come il platino. Il risultato è una batteria ricaricabile, non infiammabile e che non esplode.

Individuata la molecola che fa ritornare giovani

Ricercatori della Harvard Medical School sono riusciti a mettere a punto una particolare molecola che potrebbe farci ritornare giovani. I test sono stati sperimentati con successo sui topi, la sperimentazione sull’uomo avverrà non prima del 2015. La notizia è sensazionale se si pensa che fino ad oggi l’invecchiamento era considerato un processo inarrestabile e incontrovertibile. Si è riscontrato che questa particolare molecola, chiamata Nad, diminuisce proporzionalmente con l’avanzare dell’età; gli scienziati aumentando le quantità della molecola sono riusciti a ringiovanire le cavie di laboratorio. In una settimana di cura gli scienziati ai topi di 2 anni hanno “sottratto” un anno e mezzo di vita, prendendo in considerazione parametri come la funzionalità mitocondriale, l’insulino-resistenza, la perdita di massa muscolare, e l’infiammazione. Un primo passo verso l’eterna giovinezza?