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Ritrovato in Turchia il più antico arnese in pietra

È stato rinvenuto in Turchia il più antico utensile in pietra mai scoperto prima, rivelando così che gli esseri umani si sono spostati dall’Asia all’Europa molto prima di quanto si pensasse, circa 1,2 milioni di anni fa. Il ritrovamento è un pezzo di quarzite lavorato dall’uomo ed è stato scoperto in antichi depositi del fiume Gediz, nella Turchia occidentale. La scoperta è stata fatta da ricercatori della Royal Holloway e dell’Università di Londra, insieme a un team internazionale dal Regno Unito, Turchia e Paesi Bassi. Il prof. Danielle Schreve, dal dipartimento di geografia presso il Royal Holloway, spiega: “questa scoperta è fondamentale per stabilire la tempistica e la rotta percorsa dalla specie umana per insediarsi in Europa. La nostra ricerca suggerisce che il reperto è il più antico manufatto mai registrato fino ad oggi”. Per datare l’oggetto i ricercatori hanno fatto uso di strumenti ad alta precisione impiegando metodi radioisotopici e principi paleomagnetici, appurando che i primi esseri umani erano presenti nella zona tra circa 1,24 e 1,17 milioni di anni fa. In precedenza, i più antichi fossili di ominidi in Turchia occidentale erano stati recuperati nel 2007 a Koçabas, ma la datazione di questi e altri reperti di pietra erano incerte. Fonte

Scienziati scoprono composti per creare la pillola per l’obesità

Alcuni ricercatori dell’Harvard Stem Cell Institute (HSCI) hanno pubblicato uno studio che loro stessi descrivono come “il primo passo verso una pillola che può sostituire il tapis roulant (anche se, naturalmente, non fornirebbe tutti i benefici offerti dall’esercizio fisico)”. La ricerca sul controllo dell’obesità prende in esame le sempre più utilizzate cellule staminali umane, per trasformare le cellule di grasso bianche o “cattive” in cellule di grasso bruno; quest’ultimo è in grado di bruciare il grasso bianco trasformandolo in calore. Ciò non significa che è già disponibile un farmaco da utilizzare  per un trattamento clinico, ma apre la strada perché questo possa diventare realtà da qui a breve, magari dopo che i medesimi risultati saranno replicati con successo da altri team di ricerca. Le cellule di grasso bianche immagazzinano energia sotto forma di lipidi e svolgono un ruolo primario nello sviluppo dell’obesità, del diabete di tipo 2 ma anche di malattie cardiache, mentre il grasso bruno ha dimostrato nei topi che è in grado di abbassare i livelli di trigliceridi, ridurre l’insulino-resistenza associata a diabete di tipo 2 e bruciare il grasso bianco. Il prof. Cowan, associato nel dipartimento di cellule staminali e biologia rigenerativa di Harvard, ha così commentato la ricerca: “Siamo rimasti davvero colpiti dal fatto che ci sono alcuni composti che riescono a riprodurre lo stesso effetto di bruciare il grasso in eccesso quando vengono somministrati agli animali, ma quando questi composti non vengono più somministrati, l’effetto svanisce. In questo studio, invece, si è appurato che con la somministrazione dei nuovi composti l’effetto persiste e la conversione di grasso bianco in grasso bruno è stabile nel tempo”. Primi esperimenti in Germania hanno visto impiegare i nuovi composti sui topi: “Ci aspettiamo di avere i risultati abbastanza presto” Cowan ha dichiarato, aggiungendo che, “i composti sembrano funzionare sui topi allo stesso modo di come appurato in laboratorio, ma non sappiamo ancora quali sono gli effetti a lungo termine sul sistema metabolico e immunitario”. Cowan è attualmente impegnato nel parlare con diverse aziende farmaceutiche per collaborare sul progredire dello studio. Fonte

Nuova tecnica permette di misurare con precisione la distanza delle galassie

Un team di scienziati, guidati dal dottor Sebastian Hoenig dall’Università di Southampton,  utilizzando il W.M.Keck Observatory vicino la vetta del Mauna Kea, alle Hawaii, ha messo a punto un nuovo metodo per misurare con precisione la distanze delle galassie distanti anche decine di milioni di anni luce. La ricerca, pubblicata sulla rivista Nature, è stata utilizzata per identificare la distanza esatta della vicina galassia NGC4151, in cui prende vita un buco nero supermassivo, in crescita, che si troverebbe nella regione bianca (vedi foto del post) al centro della galassia. NGC 4151, soprannominata dagli astronomi ’l’occhio di Sauron’, per via della sua somiglianza con la raffigurazione data dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien ne “Il Signore degli Anelli” a un personaggio di Arda, riveste un ruolo importantissimo per misurare con precisione la massa del buco nero al suo interno. Le distanze finora ipotizzate variavano da 4 a 29 Megaparsec, ma usando questo nuovo metodo, i ricercatori hanno calcolato una distanza di 19 Megaparsec (1 megaParsec = 3.08567758 × 1022 metri) con un delta di errore pari al 10 per cento.
Il buco nero della galassia riesce a “inghiottire” enormi quantità di gas e polveri dall’ambiente circostante e proprio in questo processo il materiale si riscalda diventando molto luminoso, la fonte più luminosa tra quelle persistenti di radiazione elettromagnetica nell’universo, conosciuta come Nuclei Galattici Attivi (AGN). Il materiale riscaldato forma così una sorta di anello attorno al buco nero che emette radiazione infrarossa, e che i ricercatori hanno usato come punto di riferimento. Il team di astronomi ha misurato il ritardo tra l’emissione di luce dal buco nero e quella infrarossa generata dall’anello generato dalle polveri incandescenti, ovvero la distanza che la luce deve percorrere per viaggiare dal bordo del buco nero all’anello. Combinando la dimensione fisica dell’anello con la dimensione apparente misurata da un interferometro del Keck Observatory, i ricercatori sono stati così in grado di determinare la distanza della galassia NGC 4151. L’obiettivo è ora quello di stabilire precise distanze per una decina di galassie, ciò fornirà una migliore comprensione della storia dell’espansione del nostro universo. Fonte

Il DNA “sopravvive” a un volo nello Spazio con rientro in atmosfera terrestre

Un team di scienziati dell’Università di Zurigo è giunta a questa sorprendente conclusione durante un esperimento inerente la missione TEXUS-49: un razzo lanciato nel marzo del 2011 dal centro Esrange dell’Agenzia spaziale europea a Kiruna, in Svezia. I ricercatori hanno applicato sulla scocca del razzo dei campioni di DNA, una volta rientrato dalla missione il razzo ha conservato il campione di materiale genetico, ma non solo, il DNA recuperato (almeno il 35 per cento) era addirittura ancora in grado di trasferire informazioni genetiche. “Questo studio fornisce prove sperimentali che le informazioni genetiche del DNA sono essenzialmente in grado di sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio e al rientro in atmosfera densa come quella della Terra” ha dichiarato il professor Oliver Ullrich dell’Università di Zurigo. L’esperimento era stato inizialmente concepito come pre-test per verificare la stabilità di biomarcatori durante il volo spaziale e rientro in atmosfera. Nessuno dei ricercatori si aspettava i risultati prodotti. L’esperimento spiana così la strada sulla ricerca di forme di vita extraterrestre.

Ecco perché l’acqua calda congela prima di quella fredda

Scienziati della Nanyang Technological University di Singapore sono riusciti a capire come mai l’acqua calda congela più rapidamente dell’acqua fredda, un fatto conosciuto come effetto Mpemba, riscoperto casualmente nel 1969 dallo studente tanzaniano Erasto Mpemba, ma già raccontato nel IV secolo a.C. da Aristotele.  Fino ad oggi, nonostante le tante ipotesi avanzate, nessuno era mai riuscito a dedurre qualcosa di scientificamente apprezzabile, anche se la  nuova scoperta, in ogni caso, dovrà comunque essere dimostrata e approvata dalla comunità scientifica internazionale. I ricercatori spiegano così il fenomeno: le molecole d’acqua sono composte da un atomo d’ossigeno e due di idrogeno, tenuti insieme da legami covalenti. Contemporaneamente, tramite il legame idrogeno, gli atomi di idrogeno di una molecola sono attratti da quello d’ossigeno delle molecole più prossime; nonostante questa attrazione, nel complesso le molecole d’acqua, a una certa distanza, tendono a respingersi. Gli scienziati hanno osservato che, in funzione del fatto che la distanza tra le molecole è dipendente dalla temperatura, nell’acqua calda la distanza risulta massima, di conseguenza anche l’effetto di repulsione, effetto che rende i legami idrogeno maggiormente “in trazione” tra loro e quindi capaci di accumulare più energia, la stessa energia che poi viene liberata più rapidamente nella fase di raffreddamento dell’acqua calda. Il rilascio di tale energia tende quindi a far ricongiungere le molecole d’acqua a una velocità che risulta essere proporzionale alla quantità di energia a disposizione: più calda sarà l’acqua, maggiore risulterà essere l’energia liberata durante la fase di raffreddamento, con una conseguente maggiore velocità di riavvicinamento delle molecole e, quindi, di congelamento.

In arrivo batterie al litio cinque volte più potenti

Alcuni ricercatori del Georgia Institute of Technology, hanno di recente pubblicato un articolo, apparso tra le pagine del magazine Nature Materials, nel quale aprono le porte a una nuova tipologia di batterie al litio, molto più performanti rispetto a quelle attualmente in commercio. Si tratta di dispositivi innovativi, in grado di auto-assemblarsi e con anodi di silicio e carbonio. La nuova generazione di batterie al litio troverà largo impiego sulle prossime vetture elettriche ma potrà presto essere impiegata anche in centinaia di dispositivi elettronici, in primis apparecchiature mobile sempre più avide di energia. Il processo che porta alla realizzazione dei nuovi accumulatori, funziona grazie a un intreccio di particelle di carbonio temprate ad alta temperatura, che creano una sorta di rete di supporto per delle nanosfere di silicio (il cui diametro è di circa 30 manometri). Si realizzano così degli anodi, in grado di avere una capacità fino a cinque volte rispetto a quelli tradizionalmente realizzati in grafite. Link per approfondimenti

Individuato il gene che caratterizza l’età di una persona

In diverse circostanze, guardando i tratti di una persona avanti con l’età ci viene spontaneo dire: ma sembra una giovincella, il suo volto non sembra affatto essere segnato dal tempo. A questo modo di dire, ora gli scienziati hanno trovato un corrispondente scientifico. Infatti, alcuni ricercatori della University of Leicester e del Kings College di Londra, in un recente studio pubblicato sul magazine Nature Genetics, dimostrano come un particolare gene del Dna umano possa incidere sull’apparenza di una persona, facendola di fatto sembrare più giovane o più in avanti con l’età rispetto a quello che realmente la sua data di nascita dimostra. I ricercatori hanno preso in esame un campione di 12.000 persone, esaminandone il loro DNA hanno notato che esiste uno stretto legame tra la lunghezza dei telomeri (la regione terminale del cromosoma) e l’età biologica di una persona. La scoperta, secondo i ricercatori sarà utilissima per identificare i pazienti che corrono rischi di sviluppare malattie legate all’invecchiamento ma anche alcune patologie del cuore e legate ad alcune tipologie di tumore. Fonte e approfondimento